Woman in gold
Regia di Simon Curtis con Helen Mirren, Ryan Rodney Reynolds e Daniel Brühl.
Sono belli quei film che raccontano il coraggio di chi ha subito profonde ingiustizie e combatte per avere giustizia. Nel caso della Shoà, non sono mai troppi i film che si occupano di condannare, denunciare e trionfare sul nazismo e sui risvolti ancora presenti nelle società tedesche e austriache.
Il quadro di Klimt è definito la Mona Lisa dell’Austria, ma l’Austria si era dimenticata che aveva rubato il quadro, ingannato dopo la guerra gli eredi e proseguiva nel percorso segnato dai nazisti rubando agli ebrei. Nel 1996 Maria Altman e il suo avvocato, nipote del compositore Schoenberg, vengono trattati non tanto meglio di come i nazisti trattarono gli ebrei, con lo stesso sentimento di disprezzo e alterigia. Il rifiuto a riconoscere i diritti sui quadri di Klimt, senza alcuna pentimento, senza alcun segno di cambiare veramente rispetto al passato, è il segno, semmai ce ne fosse stato bisogno, del fatto che il nazismo fu voluto dagli austriaci e che il pentimento semmai sarà dei nipoti dei nipoti. Forse.
Maria Altman lo dice chiaramente durante il film. Gli austriaci lanciavano petali di fiori mentre Hitler entrava a Vienna.
Il film senza mezzi termini racconta questa barbarie, non salva nessuno. Neanche l’Austria moderna riesce a prendere un percorso diverso. Quando potrebbe l’unica decisione che può prendere e proseguire nel rubare ciò che era degli ebrei. Perché in fondo in fondo sono sempre ebrei. Non illudiamoci.
Un film bellissimo, attori straordinari, una storia assoluta sulla vita, la memoria, la giustizia e l’identità.
Per la precisione: il quadro è a New York, l’Austria ha perso, i nazisti hanno perso. La signora Maria Altman ha avuto giustizia.
Andrea Grilli